Racconti da un genocidio

Racconti da un genocidio davanti agli occhi di tutti.

Sono nascoste in una buca da due giorni, dietro le macerie di quella che un tempo era una casa. Sono sorelle. Susan ha 11 anni, Amal 8. L’abitazione non si trova sulla strada principale ma in mezzo ad altre case, ora tutte distrutte. Intorno alle bambine soltanto lastroni di cemento spezzati, polvere, ferro, calcinacci. E da qualche ora anche solo silenzio. Non ce la fanno più a stare lì. Devono muoversi.

Vi erano arrivate di corsa, scappando da un bombardamento, che aveva avvolto tutto in una nuvola di fumo. Avevano chiamato e chiamato tenendosi per mano, piangendo, salendo sulle pietre per vedere meglio. Ma nessuna risposta. Avevano urlato di disperazione. Un ragazzo le aveva notate, si era avvicinato.

  • Dove sono i vostri genitori?
  • Stavano con noi, non li vediamo più.

Il giovane si era guardato attorno, morti, feriti, sangue dappertutto. Gli si erano riempiti gli occhi di lacrime. Aveva poi guardato le due ragazzine: stavano tremando, abbracciate.

  • Saranno andati a nascondersi, lo stanno facendo tutti. Dobbiamo andare via di qui, vi accompagno in un posto dove potete stare sicure. E poi vado a cercare i vostri genitori. Ma l’importante adesso è che voi vi nascondiate.

Il giovane aveva ripetuto queste parole cercando di coprire le urla delle due bambine che non avevano nessuna intenzione di muoversi. Ma un altro sibilo tagliente seguito da una terribile esplosione aveva convinto le due sorelline terrorizzate a muoversi da lì.

  • Scappiamo, scappiamo, forza, di corsa, di corsa!

E le due bambine e il giovane si erano messi a correre dapprima sulla strada principale e poi in mezzo alle macerie di tutte quelle case distrutte. “Ancora, ancora più lontano”, diceva il ragazzo. Le due bimbe continuavano a urlare e a piangere ma cercavano di stare dietro al ragazzo che saltellava sulle rovine delle case, come si fa sugli scogli. Fino a quando si era fermato, si era guardato attorno con estrema attenzione, e aveva scelto quella casa distrutta dicendo loro di stare lì, nascoste, e di non muoversi assolutamente.

  • Anche i vostri genitori hanno fatto così, tutti stiamo facendo così. Poi questi bombardamenti finiranno e allora potremo uscire tutti. Io vado adesso a vedere com’è la situazione, magari incontro anche i vostri genitori ma voi non vi muovete da qui, state sempre nascoste in questa buca che non vi vede nessuno. Qui non c’è più niente da bombardare, siete al sicuro.

Susan e Amal di nuovo abbracciate, continuavano a tremare. Il ragazzo non sapeva se le due avevano capito tutto quello che aveva detto, ma doveva andare. C’era sua nonna che non poteva muoversi e che lo stava aspettando. Aveva promesso di portarla via con un altro gruppo di anziani. Non poteva lasciarli lì. Aveva sfiorato con una carezza i capelli di Amal che si era ritratta. Doveva andare, doveva andare. Alle due bambine avrebbe pensato Allah. Lui non poteva fare più niente. “Che Dio vi doni lunga vita”, aveva detto. E così, correndo e piangendo e urlando di rabbia allo stesso tempo, il ragazzo se n’era andato.

Susan adesso sta succhiando la ferita di Amal al braccio. Niente di grave ma il suo papà le aveva insegnato a fare così quando c’era del sangue.

  • Brucia, dice Amal.
  • Sì ma tanto adesso devi succhiare anche tu questa qui che ho sulla gamba e brucerà anche a me, così siamo pari.

Non riescono a sorridere. Ma dopo anche Amal succhia la ferita sulla gamba della sorella sputando continuamente perché il sapore del sangue la disgusta.

  • Secondo te Mama e Baba come stanno?
  • Stanno bene, figurati, Baba è forte e anche furbo. Vedrai che verranno quando tutto si sarà calmato.
  • Ma quando finirà tutto questo?
  • Lo sa solo Allah misericordioso.
  • Hanno rotto tutte le cose, non c’è più niente.
  • Baba ricostruirà tutto, dice che l’ha sempre fatto. Noi adesso dobbiamo stare qui brave nascoste e non farci scoprire e vedrai che poi tutto si mette a posto.
  • Ho fame.
  • Anch’io ho fame ma dobbiamo aspettare, non ci pensare.

Si abbracciano e si addormentano, piangendo, questa volta in silenzio.

Arriva la notte. Il freddo, la paura, la fame le tengono sveglie. Non mangiano praticamente niente da due giorni. Baba aveva portato dei pezzi di pane ma erano finiti subito.

  • Ho proprio fame, dice Amal.
  • Anch’io, ma dobbiamo resistere.
  • Mi fa male la pancia. E ho anche sete. Non ce la faccio più a stare qui.
  • Aspettiamo che faccia giorno e poi usciamo di qui, andiamo sulla strada e sicuramente incontreremo qualcuno che ci darà da bere e da mangiare.
  • E Mama e Baba?
  • Incontreremo anche loro, se si sarà calmato tutto, vedrai. Dormiamo adesso, dormiamo.

Yossef è sul tetto di una casa semidistrutta col suo fucile. Il suo è un lavoro che gli piace, è pulito, tranquillo, a volte lo trova anche divertente. Lui i palestinesi li odia. Non sono esseri umani, sono meno delle bestie e devono morire tutti. Un giorno quella terra sarà tutta loro e ci sarà pace e sarà bellissimo. Yossef è lì perché gli hanno detto che non ci devono essere superstiti in quella parte della Striscia. Li avevano anche avvisati: andate via altrimenti vi ammazziamo. Quindi se c’è qualche coglione che non se ne vuole andare peggio per lui. Solo che è lì dalle prime luci dell’alba e sembra veramente che non ci sia più nessuno. Cazzo ieri hanno bombardato bene. Il mondo deve capire che Israele non si tocca. A Yossef piace che il suo lavoro venga riconosciuto come qualcosa di veramente grande. Stiamo scrivendo la storia, pensa con orgoglio. Gli hanno detto che hanno creato dei punti panoramici da cui si può ammirare l’andamento della guerra, i bombardamenti. E ogni giorno ci sono sempre più turisti che vanno lì e applaudono, si fanno i selfie. E’ bello che tutto questo loro duro lavoro venga riconosciuto. Il sole comincia a scottare. Speriamo che qualche animale prima o poi entri nella mia visuale, dice ad alta voce regolando il cannocchiale.

  • Non si sente più niente.
  • Allora possiamo uscire.
  • Sì, andiamo sulla strada.
  • Sto morendo di fame, Amal, mi fa proprio male la pancia e ho sete.
  • Anch’io, anch’io, adesso vedrai che troviamo qualcosa.
  • Magari incontriamo anche Mama e Baba che ci staranno cercando.
  • Sì, sì, è possibile, muoviamoci, però piano e senza fare rumore.

Nel mirino di Yossef lentamente appaiono queste due figure. Yossef ha un sobbalzo. Ci siamo, pensa, ci siamo. Vediamo queste due puttanelle cosa fanno, dove vanno.

Amal e Susan, dandosi la mano, arrivano lentamente, fino al bordo della strada. Non c’è nessuno in giro. Sono deluse. Si seggono su una pietra. In questo momento fame e sete sono le cose che le torturano di più.

Yossef sorride. “Brave, vi siete sedute, così non faccio neanche fatica a prendere la mira. Alza il visino tesoro, alzalo, così: bang, un colpo in fronte, perfetto”.

Amal non capisce, vede sua sorella accasciarsi. Alza il viso per guardarsi attorno, per capire cosa è successo. Ed è proprio quello che vuole Yossef: “Brava piccolina, alza il tuo musetto”: bang, un altro colpo in fronte. Anche Amal si affloscia e poi cade in avanti.

Yossef sorride e alza il pugno in segno di vittoria.

Questo racconto è liberamente ispirato a fatti realmente accaduti e che continuano ad accadere ogni giorno in Palestina.

Alessandro Ippolito